Seminiamo il futuro

ALLEVAMENTO DI RAZZE BOVINE DA LATTE E SUINI A LIMITATA DIFFUSIONE PER LA CONSERVAZIONE DELLA BIODIVERSITÀ EX SITU

di

Roberto Ferrari

fondatore e consigliere
Associazione Razze Autoctone a Rischio Estinzione

vicepresidente
Associazione di Volontariato valledelsalto.it

 
Relazione da atti del convegno di studio “SEMINIAMO PER IL FUTURO”
Idee e prospettive per una nuova economia agricola montana del nostro territorio
Loc. Torre del Parco, Camerino, 26 maggio 2017

 

 

Sull’Appennino mi sento a casa. Non ci sono limiti fisici che possano mettermi in difficoltà, fermare il mio incedere lento: cime tanto audaci che non possa superare, o valli così impervie da attraversare. Mi rassicurano, anzi, i rilievi. La pianura, il piano mi disorientano. Non ne rispetto i confini, i limiti imposti dall’uomo. Così come non li hanno rispettati i recenti eventi sismici.

Amo gli Appennini. La regione fisica più estesa d’Italia, dove ancora coraggiosamente vive il 41% dell’intera popolazione, ma che da troppo tempo è stata sottovalutata.

Amo l’Appennino così tanto, che se ho deciso di diventare Perito Agrario e poi di venirci a vivere è stato per i continui insulti rivolti alla mia terra.

Il primo, doloroso, sentirla apostrofare addirittura “ZONA DEPRESSA”.

Poi ancora: “ZONA SVANTAGGIATA”, forse leggermente meno cattivo, ma pur sempre umiliante. Oggi “MARGINALE”.

Però nel frattempo ho imparato a giocare con le parole: non più insulto ma augurio!

MARGINALE, perché per questo territorio vedo soltanto ampi margini di riscossa, rinascita, rivalsa. Margini ampissimi di intraprendenza; notevoli margini di miglioramento economico, ambientale e sociale.

Sono orgoglioso di essere di nuovo a casa e partecipare al convegno: “Seminiamo il futuro”. Ho con me i miei semi.

RARE: Razze Autoctone a Rischio Estinzione, l’associazione che rappresento, nasceva 15 anni fa, prima associazione italiana senza fini di lucro per la salvaguardia e la valorizzazione delle razze autoctone italiane a rischio di estinzione.

Da allora, l’idea originale di noi fondatori non è cambiata, e ancora oggi RARE svolge un’intensa attività di salvaguardia diretta delle razze maggiormente minacciate di estinzione e di educazione alla tutela della biodiversità in agricoltura e zootecnia.

Nel 2011, RARE è stata chiamata dal Ministero dell’Agricoltura per collaborare alla realizzazione delle linee guida per l’individuazione e la salvaguardia della biodiversità delle risorse agricole, coordinandone la parte delle razze zootecniche. Forte di quell’esperienza ha realizzato una vera e propria pietra miliare per il settore: l’Atlante delle razze autoctone italiane edito dall’Edagricole.

Personalmente ritengo che mai come ora il recupero di queste nostre terre percorse dal sisma, e non solo, possa e debba avvalersi del recupero delle antiche razze zootecniche autoctone.

Tante nel frattempo si sono estinte, non esistono più, ma tanti ancora, di questi poderosi “compagni di viaggio”, sono ancora qui che aspettano.

Pazientemente, aspettano che torniamo indietro dalle scorciatoie rivelatesi ben presto insidiose; dalle affascinanti, troppo comode deviazioni verso l’abisso; dalle ascese ripide, così strette e pericolose che non sappiamo affrontare da soli.

Aspettano pazientemente per riprendere insieme il cammino.

Compagni di viaggio”.

Il restauro dei monumenti, degli antichi siti storici e religiosi sarà lungo e difficile. Diviene quindi indispensabile puntare su un turismo immediatamente fruibile, quello enogastronomico, tessendo quanto più fitta, una rete di aziende agro zootecniche con spiccate ed anche originali peculiarità per renderle fortemente attrattive.

Allevamento in situ o extra situ?
Il caso emblematico del Cervo di Padre David


Il Cervo di Padre David

Non so se Padre David portasse il saio, di sicuro non lo avrebbe consumato alle ginocchia.

I calzari, o qualsiasi tipo di calzature, quelle si, le avrebbe abbondantemente logorate. Indossare l’abito talare era all’epoca l’unica possibilità per i non abbienti di accedere all’istruzione e visitare il mondo. Jean-Pierre Armand David era appassionato dagli animali e dai viaggi.

Pur essendo figlio del sindaco e medico del paese francese dov’era nato, non aveva possibilità economiche sufficienti per frequentare l’università. A 20 anni entra perciò in seminario e a 22 come novizio in una congregazione missionaria. A 24 è inviato a Savona ad insegnare Scienze Naturali, dove costituisce un museo e impara l’arte della tassidermia: conciare le pelli degli animali e imbalsamarli.

Nel 1862 è finalmente inviato in Cina, per cercare soggetti utili ad arricchire le collezioni del Museo di Parigi. Trascorrerà in Cina ben 12 anni, e tra le sue tante scoperte c’è sicuramente il Panda Maggiore, grazie alle pelli inviate a Parigi.

Mentre è a Pechino, nel 1864, viene a conoscenza della riserva di caccia dell’Imperatore.

Luogo ammantato di fascino e mistero, nessuno può accedervi, pena la morte, circondato da un muro di 60 km e presidiato da temibilissime guardie tartare.

Questo non riesce a fermare il nostro temerario Padre David, anzi, ne stuzzica la curiosità e correndo il rischio pur di soddisfarla, riesce ad issarsi sul muro.

Un grande branco di animali sconosciuti e strani, con la striscia dorsale scura, la lunga coda da cavallo, il corpo tozzo da asino, le zampe larghe da mucca e le corna ramificate da cervo". Era proprio un cervo. Un cervo sconosciuto e già allora molto raro. La situazione politica in Cina, in quel momento stava per precipitare, così padre David chiede soldi al museo parigino per corrompere le guardie e procurarsi le pelli di una femmina, un cerbiatto e un maschio con tanto di corna.

E’ un animale grande, alto un paio di metri, abitudini semi-acquatiche, solito infatti, entrare in acque anche profonde, per brucare erbe palustri. Le zampe larghe gli servono per non affondare nel fango. Caratteristica insolita sono però le corna. Oltre alle “normali”corna da cervo, quello di Padre David possiede un ramo posteriore che corre parallelamente al dorso. Probabilmente, tali sciabole potrebbero servire ad evitare l’attacco delle tigri, suoi abituali predatori, ed impedirne, o evitarne, il colpo e il morso letale.

Evidentemente la bustarella dovette risultare molto generosa, perché padre David riuscì addirittura ad entrare “illegalmente” in possesso di 2 coppie dei preziosi cervi. Una morì per l’alimentazione sbagliata. Il console britannico, Robert Swinhoe, più bravo come zoologo che come diplomatico, “complice” di Padre Adam, riuscì ad azzeccare la dieta e farli giungere vivi allo zoo di Londra dove si riprodussero felicemente. I richiestissimi successori di quest’ unica coppia, andarono a popolare gli zoo del Regno Unito, Francia e Germania.

Un nobile inglese, l’undicesimo duca di Bedford, Herbrand Russel, in una modesta tenuta di 9000 ettari, collezionista di ungulati selvatici se ne innamorò a sua volta e requisì tutti i 18 esemplari allora esistenti. Potete ammirare la sua umile dimora nel film “La regina del deserto”, pellicola non esaltante con una svogliata Nicole Kidman. Nelle sequenze, immancabilmente, compare una femmina di cervo in posa statica. Forse la più vivace tra i protagonisti.

Lord Russel era arrivato giusto in tempo, perché nel frattempo i 200 capi della riserva dell’Imperatore cinese morirono tutti, insieme ai pochi ancora presenti in natura.

In Cina, il Cervo di Padre David era ufficialmente estinto.

Fu solo grazie al tempestivo allevamento ex-situ se ancora oggi possiamo ammirare un animale così bello, particolare, e con una storia tanto avvincente da narrare.

I Cervi di Padre David sono tornati in Cina e sono comuni, ma non li si può rilasciare in libertà, perché intensamente cacciati per i loro palchi, ritenuti un potente afrodisiaco dalla medicina popolare cinese.

E’interessante rimarcare che qualora l’uomo ha problemi con la sua virilità, inizia ad interessarsi delle altrui appendici cornee.

Ho voluto raccontare la storia, spero affascinante, del Cervo di Padre David, per spiegare l’enorme importanza della conservazione, l’allevamento e la diffusione delle razze, nel nostro caso zootecniche, al di fuori della loro zona di origine.

Ci tornerò ancora, più tardi, presentando i suini.

Ancora una volta, la scelta del Cervo di padre David non è casuale: tornare ad allevare, in questo momento, e in un territorio come questo, non è soltanto coraggio, follia perché no, passione, amore per gli animali; ma è sempre più, storia, impegno, ricerca, previdenza, lungimiranza, lascito generoso per le generazioni future. E’, in una parola sola: cultura.

Questo cervo, ormai famoso, sottolinea ancora una volta quanto sia importante, necessario impegnarsi per salvare anche una singola specie, o una razza domestica soltanto.

Entro nel vivo del mio intervento presentando le razze bovine.

Doverosa, a questo punto, una premessa, meglio, un’affermazione provocatoria, che ai tanti detrattori sembra lecita, l’arma, la soluzione finale, decisiva, per mettermi al tappeto.

Perché discuterne: -“Fanno meno di 10 litri di latte al giorno!”-

Il latte di una vacca che pascola libera in montagna, il suo latte e i suoi formaggi profumati, sono soltanto da ricordare con nostalgia? Dobbiamo relegare le nostre amate bovine nei presepi ?

E’ proprio su questo “fanno meno di 10 litri di latte al giorno!” che vorrei soffermarmi.

Mostrato così sembra che produrre poco sia una sorta di infamia e la condanna è relegare i sistemi estensivi proprio ad un ruolo da presepe.

Sì, se dessimo per scontato che alla fine, il latte e i prodotti che se ricavano, siano tutti uguali. Un liquido bianco che si paga un tanto a tonnellata.

Il pastore, quando va bene, è considerato un retrogrado. Il prestigio è soltanto degli allevatori ipertecnologici, che producono con i loro 2 milioni di vacche, il mare di latte che entra nelle nostre case. Latte pagato pochi spiccioli al litro, e anche noi consumatori ci mettiamo del nostro, perché non siamo disposti a sborsare più di un euro o poco, più alla confezione.

Invece per una bottiglia di buon vino, 5 - 10 o anche molti euro in più. Eppure, voglio sperare che consumiate più latte che vino!

Provate a far cagliare il latte comprato al supermercato per produrre formaggio e vi accorgerete finalmente che per l’allevatore industriale, sostenuto da regole e finanziamenti che premiano soltanto i sistemi intensivi, probabilmente quel latte è ormai un sottoprodotto, perché guadagnerà sempre più dalla produzione (sempre sussidiata) di energia elettrica e concimi digestati.

Il latte, quello vero, non il liquido bianco, ma l’alimento, alimento disponibile e costante, è stato il motivo della domesticazione degli animali. Il latte, quello buono, è ritenuto fondamentale per l’evoluzione umana, tanto da definire la lattasi, l’enzima, la possibilità di riuscire a nutrirci di latte anche in età adulta, notevolmente più importante del pollice opponibile.

Nonostante tutto, anche se non nutro particolare fiducia nei “frisionisti”, come amano definirsi gli allevatori industriali di vacche da latte, ho un profondo rispetto della Frisona.

Lei, l’amante impossibile difficile anche solo da immaginare, sempre pronta non soltanto a soddisfare ogni nostro perverso desiderio, ma addirittura anticiparlo, in una corsa spasmodica all’estremo, allo schianto, alla morte. Sempre che prima non sopravvenga la pazzia.

Animale, essere vivente fattosi ingranaggio di un processo meccanico dell’immensa fabbrica del latte. Come ingranaggio, soggetto ad usura, o rottura, una volta esaurito il proprio ciclo, è avviato alla rottamazione.

Trascinate malamente dai trattori, agganciate e sollevate per una zampa che non regge il peso e si frattura, o peggio, sfondate dalle forche dei muletti.

I bovini non sono molto espressivi, ma il terrore negli occhi e il basso, lungo, lugubre muggito di dolore sono inequivocabili. Ecco, questi sono lamenti e scene a cui non vorrei assistere.

L’istinto materno della Frisona è davvero impareggiabile: vorrebbe prendersi cura di noi, ed allattarci, dall’infanzia alla vecchiaia.

Mi piacciono le Frisone, nutro una passione per i lucidi mantelli monocromatici, senza macchie: o tutte nere o completamente candide.

L’ordine con cui passo a presentarvi le razze italiane a limitata diffusione è volutamente errato. Per recuperare un territorio, dobbiamo necessariamente affidarci prima ad un prodotto, un ottimo prodotto, e soltanto dopo ricercare la razza che riteniamo più adatta. Tutte comunque hanno una storia avvincente da raccontare.

La Agerolese ne ha una abbastanza recente, che offre spunti interessanti. Nella sua costituzione, infatti, sono entrate di volta in volta diverse razze: Bretonne, Bruna, Jersey e Frisona, nel tentativo di aumentarne la rusticità ed eliminare i vari incroci dalle produzioni incerte sparsi sul territorio.

Il prodotto legato alla razza è il Provolone del Monaco, un formaggio a pasta filata, tecnologia del quale i napoletani sono veri maestri. Per commercializzarlo, gli allevatori si improvvisavano marinai, preferendo raggiungere Napoli via mare. Per ripararsi dall’umidità del mare e della notte durante la traversata erano soliti indossare un pesante mantello simile al saio dei frati. E proprio una lunga fila ordinata di monaci doveva sembrare quella degli uomini che si avviavano al mercato. Da lì Monaco e Provolone del Monaco.

La Burlina vanta origine antichissime. Risalenti addirittura ad una migrazione di popolazioni cimbre in epoca romana. Lo stesso nome in cimbro equivale a “corpulenta”. Nel 1933, il regime fascista, contraddicendo la politica autarchica, ordinò ai contadini ad abbattere i tori Burlini per sostituirli con razze estere più produttive. Come raccontato da Mario Rigoni in un suo romanzo, gli allevatori dell’altopiano di Asiago disubbidirono nascondendoli nelle cantine o addirittura nelle gallerie scavate nella roccia nella prima guerra mondiale. Furono imprigionati in molti e le vacche non più munte iniziarono a soffrire, allora le mogli scesero in piazza al grido di : ”Noi siamo contadine e vogliamo le Burline! Viva Mussolini e i tori Burlini!” Inneggiando al Duce, seppur con irriverente malizia, non vennero arrestate. I giornali dell’epoca riportano che così gridando, “si scoprirono il petto”, in verità tolsero soltanto la prima delle 10 maglie: tranquilli, l’onore era salvo!

La scena, con un finale tragico, e per questo censurato a lungo, fu rievocata da Bertolucci nel film “Novecento”. Il formaggio legato a questa razza è il Morlacco.

Per la sua piccola taglia, l’elevata rusticità e un’onesta produzione di latte, reputo la Cabannina una razza davvero interessante. Dovremmo cercare di vederla pascolare un po’ su tutto l’Appennino. Ad essere estinto, questa volta, non è la razza, ma il formaggio che se ricavava: il San Ste’, giudicato uno dei migliori. Ora se ne produce un altro, sempre monorazza, “lu Cabanin”.

C’è poi la Modenese, o Bianca di Valpadana, antichissima vacca da lavoro, insieme alla Reggiana, anticamente utilizzata per bonificare la Pianura padana, successivamente per il latte e il suo prodotto più conosciuto: il Parmigiano Reggiano.

Le sono particolarmente affezionato, perché dal mio incontro con la razza e due dei suoi tenaci allevatori ne è nato un racconto: “I fratelli Manicardi”, che letto magistralmente (non da me, quindi) in un programma radiofonico ha avuto un buon consenso.

La Reggiana, la mia cara Rossa Reggiana, ha un debito verso Luciano Catellani, autore indiscusso del salvataggio della razza e primo presidente del “Consorzio del Parmigiano Reggiano delle Vacche Rosse”.

Grazie al suo impegno, la Reggiana non teme più l’estinzione e, anzi, una quarantina di aziende, di famiglie, ne trae di che vivere.

Ma, quando nel 1996, lo incontrai alla Fiera di Verona, rispose anticipatamente all’affermazione: -“ma fanno meno di 10 litri di latte al giorno!”-. Appena qualche ora prima era stato visitato da un manipolo di “frisionisti” intenzionati a confermare, se mai ce ne fosse bisogno, l’indiscussa superiorità della vacca pezzata sulla povera Reggiana e prendersi gioco del loro paladino.

Ostentavano i libretti di produzione delle loro campionesse, con cifre da capogiro. Difficile non restarne disorientati, Luciano mostra uno dei suoi con produzioni, al confronto, quasi ridicole. E li riduce al silenzio. E’ vero, come negarlo, le campionesse producono effettivamente non un mare, ma un oceano di latte!

Ma per sole 4 lattazioni, quando va bene. Il nostro Luciano mostra con malcelato orgoglio, come si dice in questi casi, una Rossa alla 22esima lattazione!

E l’altr’anno a Guastalla, un altro allevatore di Reggiane, ha ammesso, visibilmente commosso, di aver inviato al macello una vacca di 20 anni che aveva smesso di produrre, ma ancora perfettamente in grado di reggersi in piedi. Immagino l’anima delle due Rosse sorriderci benevole dall’alto delle Praterie Eterne.

Potrei continuare ad elencare altre razze, ognuna con la sua peculiare storia da raccontare, ma termino citando un riuscito progetto di recupero di una razze d’oltralpe: la francese Aubrac.

E’una razza a duplice attitudine, estremamente rustica e ben adattata al proprio territorio di origine. Per rilanciarne la popolarità, si è provveduto a pubblicizzarne ed esaltarne la qualità del formaggio e della carne, unita alla ripresa della produzione artigianale di coltelli dal manico in corno di Aubrac: particolarità sicuramente non esclusiva della razza. Oggi, si organizzano veri e propri tour con visita agli allevamenti, ai laboratori di produzione e degustazione. Proprio il menù degustazione con carne e formaggi di Aubrac, presso i ristoranti selezionati, si aggira sui 90 euro, mentre un set di coltelli, può raggiungere cifre importanti.

La panoramica sulle antiche razze bovine non è certo esaustiva, spero sia servita per chiarire alcuni punti.

Passiamo allora ai suini.

In principio fu il Tamworth. Presenta ancora il muso lungo del progenitore selvatico, che gli conferisce uno sguardo vagamente sbigottito, ma a differenza del cinghiale, ha già capovolto le dimensioni corporee assegnando la massiccia preferenza del prosciutto sulla spalla. E’ tornato recentemente alla ribalta, perché il principe Carlo d’Inghilterra invia cosce dei Tamworth del suo allevamento in Italia, a Zibello esattamente, per ottenerne indietro culatelli regali. (e allora ci fa! Dilemma svelato!).

Cito ancora una vecchia razza inglese, la Berkshire, per ribadire quanto una razza può cambiare per soddisfare le nostre mutevoli esigenze. La storia di questa razza abbraccia gli ultimi 3 secoli, durante i quali è cambiata 3 volte. All’inizio, suini inglesi non ascrivibili ad una razza ben precisa, ma molto frugali, furono accoppiati con soggetti Casertani, già molto apprezzati e suini Cino-giapponesi.

Il Berkshire primo tipo nasce così: sgraziato, grossolano, scheletro pesante, muso e arti particolarmente corti, perfettamente rispondente alle esigenze del tempo.

Nel 1850, Lord Barrington seleziona e trasforma il Berkshire in un suino decisamente più elegante, lungo quanto basta, con masse muscolari molto pronunciate, scheletro leggero ma resistente. Un po’ meno massiccio da adulto, ma molto più precoce.

Sicuramente, in assoluto, uno dei migliori suini dell’epoca.

Il Berkshire moderno si distingue per una maggiore lunghezza del tronco e per carni di altissima qualità, molto meno adipose. Così fatto potrebbe tornare nuovamente alla ribalta.

La mora romagnola

Mi sono accorto di aver ripercorso, con queste razze la storia dell’allevamento suinicolo. Ecco allora il Large Black, l’enorme gigante nero, e i suoi illustri successori, Landrace e Large White.

Ed ora, con il suo emblematico caso, il Duroc, ci offre lo spunto per altre riflessioni.

Probabilmente, i soggetti di partenza degli attuali Landrace e Large White, non erano rappresentati da un numero tanto elevato di capi, e così, dopo anni di successi, di performance sempre al rialzo; di tipi genetici commerciali, di ibridi di prima generazione, le produzioni hanno iniziato ad incrinarsi. Forte il sospetto di consanguineità, si corre ai ripari cercando una razza per rinsanguare. La scelta cade sul Duroc, non badando affatto agli aspetti produttivi, quanto all’elevata, immediata disponibilità di numerosi soggetti.

Questa rossa canadese, non è stata selezionata per ottenerne salumi adatti alla stagionatura, ma carne fresca, da tritacarne, “insaccati” tipo wurstel di tutte le fogge, dimensioni ed utilizzi.

E si vede: la carne è fortemente marezzata da “lamine” sottilissime di grasso.

Carattere negativo, che, perlomeno agli inizi, condizione pesantemente i salumi frutti di incrocio tra Duroc e Landrace/Large White. I prosciutti derivati Duroc, non presentano la bella, netta, distinzione tra grasso e carne che tanto ricerchiamo e allietano vista e palato, ma la brutta marezzatura per niente attraente che riserva un effetto bresaola, di carne secca.

Partite intere di prosciutti derivati Duroc, fortemente deprezzate ed invendute iniziarono ad intasare i magazzini. Le quotazioni crollarono a valori ridicoli, finché a quel punto, e a quel prezzo, una massiccia richiesta da parte della grande distribuzione, azzerò letteralmente le giacenze.

Con un’astuta operazione di marketing a costo zero, furono brillantemente “formati” gli addetti ai banchi della gastronomia. Al cliente, soltanto se indeciso, veniva proposto: - “Desidera un Parma, un San Daniele o un Nostrano?” - nella stragrande maggioranza dei casi, la scelta cadeva sul Nostrano. E quel prodotto, dal termine quanto mai improprio, era proprio il nostro Duroc derivato! Subito dopo arrivarono le cosce trasgressive: disossate, sgrassate e stagionate a tempo di record.

L’agroindustria sceglie, riduce e seleziona un numero pericolosamente ridotto di varietà vegetali e razze zootecniche, condizionando le rimanenti, favorendone l’erosione e la scomparsa.

Quella volta per fortuna c’era il Duroc!

Torniamo velocemente al Landrace e al Large White. Pelle nuda, depigmentata senza quasi più setole. Caratteristiche interessanti, ma ottenute grazie a chi?

Finalmente torniamo in patria, per una razza storica. La Casertana.

Come la Casertana c’è solo il purosangue arabo!” afferma un eminente ricercatore. Sono pienamente d’accordo.

Come già accennato con la Berkschire, già in tempi lontani, la Casertana era conosciuta ed apprezzata. Soprattutto all’estero. Sembra non esista una razza suina che non racchiuda qualche gene della nostra Casertana, salpata per ogni lido al seguito di marinai campani.

Sembra anche che napoletani e casertani, disponessero di tre tipi: uno grande per i salumi stagionati; uno piccolo, da carne fresca, ed uno intermedio per tutti gli usi.

Tipo ancestrale, presenza di appendici sotto la gola, come le capre, dette tettole o sciuccaglie, pelle nera o nero ardesia senza setole. “Pelatella” l’appropriato soprannome.

La scure dell’estinzione si è abbattuta pesantemente sulle razze suine, ora ne restano 5.

La Calabrese, la Casertana, la Cinta Senese, la Mora Romagnola e la Siciliana. Grazie all’opera di recupero e all’ottima qualità delle loro carni, al momento nessuna di loro rischia di estinguersi, anzi, aumentano numeri ed estimatori.

Avrei molto ancora da dire sul rischio siccità che incombe ormai da una dozzina di anni sul nostro Appennino, e come con l’utilizzo del pascolamento razionale, che impone strutture e ricoveri per il bestiame leggere e rimovibili, potremmo arginare sia questo problema che quello sismico.

A chi ha avuto bontà, curiosità e pazienza per seguirmi fin qui, dedico non uno, ma ben 4 finali:

1) “Ogni settimana, nel mondo, scompaiono per sempre due razze grandi di animali domestici. Ogni domenica mi coglie immancabilmente la tristezza, anche se non le conoscevo, non so a chi sia toccato. Perché con loro spariscono prodotti, possibilità, poderosi compagni di viaggio, culture, tradizioni, storie. Con loro svaniscono le identità delle popolazioni che le allevavano, scaraventate nell’abisso dell’agonia culturale, esposte al rischio di dipendenze e miserie”. Allora: “Salvare una razza non è come salvare una vita, è salvare la vita stessa.”

2) “Il mondo continuerà a girare finché le pecore faranno muovere le montagne”. Era un detto che sentivo recitare spesso durante la mia infanzia, ma non ne conoscevo il significato, finché molti anni dopo sui monti della Laga, al cospetto del Gran Sasso, un gregge di alcune centinaia di pecore percorrendo nella stessa direzione e alla stessa velocità sentieri sovrapposti restituì l’impressione che riuscissero davvero a far ruotare la montagna.

3) Prealpi d’un tempo lontano.

Abbiamo raggiunto un rilievo, un osservatorio privilegiato. Siedo su un cuscino di muschio con il vecchio pastore che ha voluto portarmi al suo posto preferito.

Sui prati in pendio che salgono in quota, pascolano beate le pezzate rosse. Alcune, coricate a terra ruminano paciose. L’eco dei campanacci si perde nelle valli lontane.

Sotto i nostri occhi il Paradiso. Le pecore pascolano su un prato d’un verde incredibile dov’è incastonato un laghetto blu turchese che le nuvole usano per specchiarsi vanitose. Poco lontano da una sponda, affiorano dall’erba massi enormi, bianchissimi. Il pascolo sale di poco per accompagnare lo sguardo verso il bosco di conifere d’un verde scurissimo, quasi nero.

Il bosco sale ripido, termina improvvisamente. Lo sguardo, d’impeto, si arrampica e raggiunge le vette allineate dove le nuvole si strappano nella fretta di andare a raccontare quel che hanno appena veduto.

Il vecchio al mio fianco alleva silenzioso due razze di pecore davvero piccole. Sono qui per ammirarle prima che scompaiano. Innamorato come sono delle antiche razze domestiche, non dovrei averne, ma ho qualche dubbio. Sono davvero piccole: poco latte, poca carne, poca lana... Non me ne lascia il tempo, anticipa egli stesso la risposta: “Vedi? Ogni razza ha diritto di esistere, deve essere salvata! Fosse soltanto perché, come queste, sanno fare le cartoline!”.

4) “Salvare una razza è un po’ come crearla di nuovo, con tutto il sostegno e la benevola presenza di coloro che hanno vissuto e lottato per migliorarla, conservarla e affidarla alle nostre cure”.

 

GRAZIE !

Roberto Ferrari

Camerino, 26 maggio 2017


 

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